Ci vogliono smart manager (per fare bene smart working)
Pubblicato in smartworking · Mercoledì 15 Nov 2023
Ci vogliono smart manager
(per far bene smart working)
Perché la Banca d’Italia, che vanta una regolamentazione del lavoro da remoto più avanzata della generalità delle pubbliche amministrazioni in Italia e anche delle Banche Centrali nazionali europee, ha un approccio tanto “tirato” nell’applicazione della relativa disciplina normativa?
Sarebbe facile rispondere: perché quanti gestiscono il personale e le singole strutture hanno una mentalità chiusa alle novità, di fatto si tratta di un accordo che queste persone hanno subìto sotto l’effetto della pandemia, che all’epoca della firma ancora mostrava i suoi strascichi, e che mai avrebbero avallato a bocce ferme.
Oppure, perché chi ha governato la Banca per troppi anni ha favorito gli yes-man rispetto a chi ha una visione innovativa del futuro, per cui certi "progressi" vengono visti come una minaccia da respingere e depotenziare quanto più possibile.
Tutte ragioni fondatissime, ma c’è di più. Ce lo ha spiegato benissimo una ricerca del Politecnico di Milano, che con il suo Osservatorio sullo smart working ha evidenziato che sì, lo smart working è in continuo sviluppo e quindi non è una parentesi infausta ma è qui per restare, ma ha anche messo in luce il bivio davanti al quale tutti ci troviamo.
Da un lato, limitarsi a uno smart working “di facciata”, una combinazione di giornate di lavoro in presenza e giornate di lavoro da remoto, mantenendo le modalità lavorative tradizionali, che la ricerca definisce mirabilmente “lavoro da remoto non smart”.
Dall’altro, il “vero” smart working, un modello di lavoro davvero nuovo, che attraverso la digitalizzazione intelligente delle attività valorizzi appieno l'autonomia delle persone, la flessibilità, l'orientamento al risultato.
Sono due strade che più passa il tempo, più si divaricano, come ogni bivio che si rispetti.
La prima strada, lo smart working "di facciata", non apporta vantaggi all’organizzazione aziendale, e ne apporta di molto modesti al personale, che si trova con livelli di partecipazione lavorativa e di benessere psicologico addirittura inferiori, “bollato” pure dal convincimento (tacito o addirittura espresso) che il lavoro da remoto sia in fondo solo una misura di conciliazione, un beneficio per categorie di lavoratori fragili, o con problematiche personali, o necessità familiari, e che può quindi essere marginalizzata.
La seconda strada, il lavoro da remoto davvero “smart”, significa considerare il lavoro da remoto come una fondamentale leva di cambiamento organizzativo, che permetta finalmente un nuovo modo di lavorare, più autonomo, più flessibile, più responsabile, più efficiente.
Parliamo di un sistema in cui, assai più che scaldare la sedia per le ore borbonicamente predeterminate, conta che tutti siano dotati di conoscenze e formazione permanente, che sono le condizioni necessarie, e in tanti casi sufficienti, perché i risultati vengano raggiunti.
In sostanza, dobbiamo tutti pensare più in profondità: lo smart working “non è un compromesso o un male necessario, nemmeno un diritto acquisito o un fine in sé, ma uno strumento di innovazione per ridisegnare la relazione tra lavoratori e organizzazione aziendale".
Per andare in questa direzione, serve una nuova cultura manageriale, capace di definire le esigenze formative collettive e individuali, ai fini del raggiungimento di obiettivi di lavoro necessariamente collettivi e non individuali.
Per fare bene smart working, insomma, ci vogliono smart manager.
Non c’è dubbio che i “manager” si trovino davanti un compito complesso, dovendo fronteggiare esigenze potenzialmente contrastanti: assicurare benessere e flessibilità alle persone, tenere alta la motivazione e garantire i risultati aziendali. Come osserva la direttrice dell’Osservatorio, che invidiamo moltissimo al Politecnico, occorre che “i responsabili siano capaci di assegnare in modo chiaro gli obiettivi, di supportare le persone nel perseguire quelli più sfidanti, fornire feedback frequenti e costruttivi, favorire la crescita professionale”.
Chi non capisce che questo è l’interesse primario dell’Istituto forse ha sbagliato posto di lavoro. Può sempre rimediare: fuori ci sono tante belle fabbrichètte dove si lavora (soprattutto, ma neanche sempre) in presenza. Magari cercano qualche direttore del personale, hai visto mai.