Alte strategie di comunicazione: vetrine e omissioni
Esistono due modi di concepire la comunicazione. Il primo è farne una leva di condivisione tra colleghi, uno stimolo per l’interazione, garanzia di trasparenza e presupposto per proficue innovazioni.
Il secondo è intenderla come vetrina per il Direttorio, una voce calata dall’alto, l’esibizione di un modello unidirezionale che non disdegna la delegittimazione delle opinioni difformi.
Il primo è una grande opportunità di sviluppo per tutti. Il secondo è una grande occasione persa.
Per capire quale sia il modello comunicativo prevalente in Banca, basta analizzarne il lato esterno (il sito internet della Banca), e quello interno (la intranet e la newsletter
del venerdì del Servizio Comunicazione), che potrebbero essere l’uno
una fonte immediata di informazioni utili per i cittadini, l’altro uno
strumento nuovo ed efficace di parlare alle persone, creare coesione e
condivisione.
Assistiamo invece a devote vetrine di infinite conferenze e discorsi, in una narcisistica autocelebrazione che
in nulla avvicina l’obiettivo - se esiste - di fare del personale e
dell’Istituto una comunità coesa e forte, che sappia incidere
positivamente nella realtà, a vantaggio della collettività.
Assistiamo anche ad altri generi “innovativi” di comunicazione.
Quella anonima,
ad esempio, con la quale chi guida la Banca diffonde via intranet delle
squallide veline di attacco ai sindacati interni, o promuove le proprie
proposte negoziali che non trovano sufficienti servette nel confronto
sindacale.
Poi c’è la comunicazione omissiva, ossia la “non comunicazione” su temi dovuti e di massimo interesse del personale:
citiamo, per tutte, la questione sentitissima delle fasce di lavoro da
remoto, che vanno ridefinite (a norma di Regolamento) entro un anno
dall’entrata in vigore del nuovo sistema (quindi entro il 1° aprile) ma
nessuno parla, coprendo di omissis pure le risposte dei Capi al questionario loro dedicato due mesi fa.
Intanto
sono spariti anche i sondaggi sul clima aziendale, evidentemente perché
si conosce già la risposta prevalente. E se ne ha paura.
Eppure, in questi anni, varie edizioni di concorsi interni (e ora anche esterni) hanno cercato di selezionare i colleghi più esperti nella comunicazione, nella gestione del personale e nelle teorie organizzative; la Funzione del Personale ha investito sulla creazione di strutture nuove, asseritamente aperte al dialogo e all’ascolto, che avrebbero dovuto valorizzare i talenti presenti in Banca.
Ma la via dell’inferno, si sa, è lastricata delle migliori intenzioni.
Che senso ha attrarre esperti in
comunicazione, che senso ha presentare i colleghi, nel nuovo piano
strategico dell’Istituto, come “ambasciatori della Banca”, dichiarare nel piano di voler “favorire una cultura aziendale sempre più pronta all’ascolto”, che senso ha dire che “la Banca usa un linguaggio inclusivo” se la reale politica gestionale è orientata alla chiusura, se la prima immagine che percepisce un neoassunto è lo steccato tra due Aree del personale non comunicanti, e se quello che si insegna agli “ambasciatori”, come a dei bambini stupidi, è l’obbligo della fiducia cieca, di non porre domande e non parlare della Banca con nessuno?
Non sarà mica che raccontare panzane fa parte del piano strategico?