1992 - 202230 anni di SIBC

Il passato ci dice che strada fare
di Massimo Caffiero
Spesso nel confronto dialettico avuto negli anni coi colleghi quando si parlava di sindacato ricorreva il tema del se e quanto questo sia utile, o addirittura ci si chiedeva a cosa serva un sindacato in Banca d’Italia dove non si avvertivano problematiche particolari, gli stipendi erano buoni e ci si percepiva come una compagine di lavoratori privilegiata.
Risposte per me facili da dare, ma che ho voluto sempre surrogare coi fatti dei risultati raggiunti e dell’impegno che tutti mettiamo nello svolgere questa attività.Ho sempre pensato che sia vero, siamo stati e ancora lo siamo, una compagine di lavoratori, non privilegiata, ma che è riuscita nel tempo, grazie alle trattative e alle iniziative del sindacato, ad avere trattamenti economici
e condizioni di lavoro di tutto rispetto contro uno scenario a noi esterno che nel tempo ha visto ridursi salari e peggiorare le condizioni di lavoro. Queste affermazioni sono però andate piano piano sfocandosi nel tempo, di pari passo alla complessità e all’importanza delle tematiche che si sono affrontate, speculari spesso all’incapacità dell’azienda Banca d’Italia, nel capire la rilevanza e la portata di queste.

I trent'anni di vita del nostro Sindacato hanno coinciso con trent'anni forse tra i più densi di cambiamenti al nostro interno, come conseguenza di mutamenti nel paese, contribuendo a sviluppare e accentuando la divisione della compagine, in “settori” di appartenenza. Il primo grande confine di separazione è iniziato subito nel 93 con la riforma Dini che ci ha diviso in due sul versante pensionistico, coinvolti direttamente dall’allora governatore Fazio, che smentiva l’intervento della Banca nel volerci coinvolgere, salvo poi ammettere, passato diverso tempo dalla sua uscita dall’Istituto, di averci coinvolto per “allinearci” al paese, anche se in realtà i maligni dicevano che volesse far confluire l’enorme saldo del fondo di quiescenza del personale, una volta esaurito il suo fine statutario, nelle casse dello stato. Ancora non si sa che fine farà quel saldo immenso, di diversi miliardi di euro, una volta erogata l’ultima pensione agli aventi diritto al TQP, ma di fatto segna l’inizio di una azione continua da parte dei vertici della Banca, atta a dividere in più parti possibile il personale.
Le trattative per la definizione del fondo pensione complementare sono state le prime che ho seguito e che mi hanno coinvolto direttamente, quasi come un paradosso che da neoassunti si debba pensare a che tipo di pensione
vorremmo, una volta raggiunta l’età. Da allora a tutt’oggi e per il futuro, che tipo di pensione vorremmo, è una delle primissime decisioni da prendere appena assunti. I negoziati sono durati diversi anni, sempre caratterizzati dalla voglia di risparmiare della Banca e da un fronte sindacale non propriamente compatto (caratteristica che è il reale tallone d’Achille dei lavoratori). Pronto il primo accordo nel 2000, siamo riusciti a migliorarlo diverse volte nel tempo.

I sindacati in Banca d’Italia hanno una peculiarità quasi unica nello scenario sindacale nazionale, che spesso non viene considerato ma che ritengo sia un aspetto di rilevanza fondamentale: le decisioni al tavolo sindacale vengono prese dagli stessi lavoratori, senza interventi di soggetti “esterni” per tutte due le parti del tavolo, i negoziatori, di parte sindacale e di parte datoriale sono lavoratori che recepiscono paritariamente (in quanto dipendenti della Banca, non dal punto di vista salariale…) le decisioni degli accordi. Questo è uno degli aspetti più importante ed è la risposta che do alla domanda a cosa servano i sindacati da noi: servono perché conosciamo meglio di chiunque i nostri problemi e sappiamo cosa chiedere.
Dopo quello sul fondo pensione complementare ho seguito altri negoziati successivi, assistendo a tutti quei cambiamenti di orientamento e di evoluzione di taluni aspetti, che di fatto ci hanno portato ad essere molto di più al passo coi tempi, nonostante i vertici della Banca avessero smesso di essere quel faro per il paese e quel bacino di professionalità e di capacità anche politica che ha contribuito a lustrare l’Istituto, come i vari Einaudi, Carli, Ciampi e Draghi.
In questi trent’anni è avvenuto poi quello che nessuno in oltre cent’anni di vita dell’Istituto avrebbe mai pensato: la chiusura delle filiali. Questo è stato un processo molto provante dal punto di vista della tenuta della compattezza dei colleghi, creando una ulteriore frammentazione, acuendo quel divario tra Amministrazione Centrale e Filiali che continua a crescere. La prima chiusura delle filiali ci ha però portato su una nuova piattaforma, facendoci diventare, come sindacato, parte attiva nel voler gestire le situazioni, suggerendo spesso come creare compiti, entrando nel merito di decisioni anche politiche della banca, proponendo soluzioni e rendendoci disponibili per capire come riorganizzare le strutture. Questo purtroppo è però un aspetto che la banca spesso non considera, cioè valutare il sindacato come non una controparte soltanto, ma una controparte attiva, che è in grado, avendo al suo interno le stesse professionalità a disposizione dell’Istituto, di capire e affrontare meglio le problematiche.
Oggi ci fermiamo ad analizzare come ci siamo mossi da ieri indietro di trent’anni e devo dire che avendo avuto il privilegio di condividerne gli ultimi 29 ci siamo sempre mossi bene. Non è autocelebrazione, è il voler affermare che ogni volta che ci siamo seduti ad un tavolo per negoziare, abbiamo sempre avuto come primo pensiero quello di portare dei vantaggi a tutti, senza trascurare nessuno. Al tavolo sono sempre state portate le idee di tutti, che poi sono quelle che ci danno forza e sostanza, le idee dei nostri iscritti che si fondono con quelle dei rappresentanti sindacali e che sono importanti per tutti.
Dobbiamo usare questa esperienza per capire come muoverci per il futuro. Dobbiamo costruire qualcosa che duri, che si adatti all’oggi, ma che sarà modificato dalle nuove generazioni.
Crediamo (anche se nel chiedercelo continuamente cerchiamo di fugare i dubbi, reale pietra miliare delle nostre decisioni) di dover portare la banca a condividere l’obiettivo di volere il benessere dei lavoratori, perché troppo spesso non pensiamo sia una priorità della nostra controparte, se solo analizziamo le scelte strategiche degli ultimi anni specialmente in tema di assunzioni.
Dei tanti accordi sottoscritti abbiamo cercato di capirne il valore, non il prezzo che si otteneva, sviluppando continuativamente nuove idee, sapendo quali abbandonare.
Oggi la sfida è nuova e riguarda la gestione di una classe di lavoratori che la banca sta assumendo negli ultimi anni che hanno tutti titoli di studio elevati e paritari, ma sono collocati in profili professionali differenti, senza aver sviluppato percorsi atti a valorizzarli, se non appiattendo tutto con proposte di riforme di carriere improbabili, con solo elevate competizioni che non portano a sviluppi dialetticamente sostenibili, ma solo rivalità e non collaborazioni, che dovrebbero essere alla base di ogni buon modo di lavorare.
È la prossima sfida, speriamo di chiuderla prima che passino altri trent’anni….